[09. Educativo
È il packaging che, in quanto oggetto diffuso, sa farsi carico della propria funzione educativa
Il tappo del Racalamac: un “ponte” etico verso la sensibilizzazione sociale e ambientale

La storia del ponte Condell, o ponte Racamalac –dal nome dell’impresa di costruzioni che lo ha rinforzato negli anni ’60– è la storia di uno dei pochi ponti pedonali che attraversano il fiume Mapocho nella città di Santiago del Cile.
A questi nomi si sono aggiunti quelli popolari di “ponte degli innamorati” e “ponte dei lucchetti”, per l’abitudine –da molti fortemente criticata per via dei problemi strutturali che può provocare– di mettere dei lucchetti sulla ringhiera della passerella e poi lanciare la chiave nel Mapocho, da parte delle coppie di innamorati, emulando la scena di un romanzo dello scrittore italiano Federico Moccia (Ho voglia di te, 2006), particolarmente famoso in Cile.
Il frammento dell’immagine del ponte Condell, riprodotto sul tappo corona di una bevanda, è un’opera dell’artista cilena Verónica Ode, è una piccola “scultura fotografica” ottenuta mediante l’applicazione manuale di emulsione fotosensibile e la successiva esposizione dell’immagine su questo supporto fotografico non convenzionale.
Che relazione può avere un tappo corona con un ponte? Che valore può assumere un accessorio di imballaggio di dimensioni così ridotte rispetto a un elemento urbanistico di proporzioni monumentali? Che valore etico può assumere un packaging o una sua parte, al convertirsi in un supporto fotografico non convenzionale? Per capire il senso di tutto ciò, dobbiamo però fare un passo indietro e capire prima di tutto il significato e l’importanza che hanno i ponti per l’artista cilena.


I ponti sono strutture che a livello urbanistico uniscono due parti della città, le collegano e allo stesso tempo ne marcano, ne sottolineano la divisione. Sono dunque punti di contatto e, allo stesso tempo, punti di cesura rispetto a un tessuto urbano discontinuo. Sono come i punti di sutura di una ferita: ne mantengono giunti i lembi affinché guarisca e si trasformano con il tempo in cicatrice, che permane nel tempo, come marca di quella stessa ferita e come ricordo di ciò che la causò.
Nel caso della capitale cilena, i ponti del Mapocho –il fiume che attraversa Santiago da est a ovest– sono un collegamento tra due grandi zone della città, che anticamente presentavano caratteristiche urbanistiche e socioeconomiche molto diverse, quasi opposte. Nel periodo coloniale – XVII e XVIII secolo – e della Repubblica del Cile nel XIX secolo, il settore nord di Santiago era conosciuto con il nome popolare di La Chimba, espressione che proviene dalla lingua quechua con il significato di “dall’altra parte”. Attualmente corrisponde ai comuni di Recoleta e Independencia, in particolare i quartieri Bellavista e Patronato.
La Chimba era una zona contraddistinta dal lavoro agricolo e popolata fin dal periodo preispanico da famiglie indigene Inca e Picunche, relegate alla servitù della città, che hanno cercato di mantenere le loro tradizioni e il loro stile di vita, per contrarrestare un inesorabile processo di estinzione culturale. Con il passare del tempo, nella zona si iniziò a sviluppare attività artigianale e commerciale, e per la tranquillità del settore e l’isolamento dal centro storico della città –che si stava estendendo a sud del fiume Mapocho– parte dei terreni della zona furono ceduti a conventi e monasteri. Durante il governo di Bernardo O’Higgins, a La Chimba fu creato costruito il Cimitero Generale della città (1821).
Per ridurre al minimo il suo isolamento, nel 1772 fu iniziata la costruzione del ponte di Calicanto – in origine “Cal y Canto”, espressione che si riferisce a una miscela di pietra e malta per la costruzione di muri – che avrebbe unito le due rive del Mapocho, fino ad allora collegate solo da un ponte di legno. Il ponte di Calicanto e i ponti che successivamente sarebbero stati costruiti per unire le due parti della città, corrispondono dunque ai punti di sutura di una “ferita” urbanistica nel rigido assetto della città, una separazione di tipo sociale ed economica tra nord e sud di Santiago, che in parte tuttora perdura.
Secondo Verónica Ode, il ponte non è solamente unione e allo stesso tempo separazione in senso orizzontale, tra un “al di qua” e un “al di là”, ma lo è anche in senso verticale, tra un “sopra” e un “sotto”. Al di sotto dei ponti del Mapocho, lungo il letto del fiume, esistono infatti le cosiddette “Caletas” (insenature) dove vivono persone senza fissa dimora e, in particolare, bambini e adolescenti di strada. La cesura socioeconomica in questa separazione tra il “sopra” e il “sotto” è quindi ancora più marcata, e il significato simbolico del ponte come unione/separazione è ancora più forte.
È a partire da questo significato simbolico che si sviluppa l’interesse, potremmo dire una ossessione, dell’artista cilena per i ponti. Una ossessione che la porta a fotografare, tra i diversi ponti del Mapocho, anche la passerella Condell, a frammentarne l’immagine, ricomporla e riprodurla su supporti non convenzionali, in particolare lastre di acciaio e allumio, che entrano in relazione con la stessa materialità e struttura del ponte di metallo.
Durante una delle sue sessioni fotografiche, Verónica Ode incontra nei pressi del ponte Condell un tappo di metallo parzialmente ossidato della bottiglia di una bevanda. Il tappo, per l’artista, non è solamente un rifiuto abbandonato, è la traccia lasciata da chi è passato da una parte all’altra del ponte, da una zona all’altra della città, oppure è un segno della presenza di chi vive, relegato, “al di sotto” di quel ponte.
Il tappo stesso simbolizza quindi un “ponte”, un collegamento spaziale, ma anche temporale, come impronta e memoria di ciò che accade in quello spazio interstiziale.



La fotografa decide quindi di intervenire l’oggetto incontrato –ispirandosi alle avanguardie artistiche del objet trouvé e alle creazioni di Marcel Duchamp e di altri esponenti del Ready-Made– e di sperimentare l’applicazione di emulsioni fotosensibili per riprodurre l’immagine del Racalamac sulla superficie metallica del tappo. Il risultato ottenuto, oltre ad essere esteticamente interessante, produce inoltre effetti insperati dal punto di vista simbolico.
Al riprodurre sull’oggetto (il tappo) un frammento del contesto dove è stato incontrato (il ponte), si genera una circolarità tra i due elementi, ponendo enfasi sull’impronta lasciata dall’oggetto (e dall’essere umano che lo ha abbandonato) nel contesto e allo stesso tempo del contesto sullo stesso oggetto, giacché le intemperie e altri fattori esterni hanno fatto sì che il tappo si ossidasse e si deteriorasse con il passare del tempo.
Questo concetto di “doppia impronta” è anche alla base di “Eterno Cotidiano”, altro progetto che pone al centro dell’intervento artistico gli imballaggi abbandonati nello spazio urbano: –sviluppato a Santiago del Cile nel 2017-2018 insieme a chi scrive che si trasformano in supporti fotografici non convenzionali e oggetti-memoria per la sensibilizzazione sociale.
Dal punto di vista del “gesto artistico”, l’intervento dell’artista consente infatti di risignificare un oggetto quotidiano, transitorio ed effimero, e trasformarlo in una opera d’arte, provocatoriamente memorabile e potenzialmente eterna, come forma provocatoria di coscientizzazione rispetto alle crisi ambientali e sociali che stiamo vivendo. Le proteste in Cile iniziate il 18 di ottobre del 2019, proprie nei pressi di uno dei ponti del fiume Mapocho, nella cosiddetta “Plaza de la Dignidad” (piazza ribattezzata cosí dagli stessi manifestanti, il nome ufficiale è Plaza Italia), ne sono un esempio.
Un oggetto apparentemente insignificante come un tappo, destinato a diventare un rifiuto, al trasformarsi in supporto fotografico non convenzionale, diventa così un artefatto con forte valore estetico ed etico, che si allontana dalla sua essenza di accessorio al servizio del consumo, per riaffermare il suo potenziale di mass-medium per la comunicazione sociale, con finalità educativa.