CONFEZIONARE L’ARIA, TRA PROVOCAZIONE E DUBBI ETICI

[07. Contemporaneo
È il packaging che sa essere in costante relazione con la società della quale rappresenta i valori.
Gli imballaggi riflettono la cultura della società e contribuiscono a loro volta a crearla. Lo fanno attraverso i messaggi, che passano dalle loro forme, dalle loro grafiche, dai loro simboli: così trasferiscono modelli, partecipando all’evoluzione della contemporaneità.

Confezionare l’aria, tra provocazione e dubbi etici: il packaging come mass-medium non convenzionale per valorizzare il territorio

Tra le notizie più curiose diffuse durante l’estate appena conclusa, ne emerge una in particolare che riporta l’attenzione sul packaging e sul suo uso come mezzo di comunicazione non convenzionale, oltre alle implicazioni etiche che questo comporta: la vendita di “aria di mare” di Porto Cesareo, nel Salento.

Con il progetto “Aria Ti Mare”, Antonio D’Elia propone ai turisti, invece dei soliti souvenir, una serie di piccole bottiglie ciascuna associata a un luogo tipico della zona salentina.
Durante l’estate 2022 sono state messe in vendita tre tipologie di “aria” che prendono il nome da tre diverse zone: “Nanzi la turre” (ovvero “di fronte alla torre”, in riferimento alla torre di San Tommaso di Torre Lapillo), “La sapunara” (insenatura storica di Torre Lapillo), e “Ientu ti tramuntana” (“vento di tramontana”, che caratterizza il mar Jonio).
Siamo di fronte alla burla di un buontempone? O a un esempio virtuoso di creatività di come il packaging possa davvero valorizzare qualsiasi contenuto, anche le qualità di un territorio?

Come sappiamo, il packaging è ciò che trasforma un contenuto anonimo in un prodotto con identità propria, gli conferisce lo status di merce e gli permette di accedere al circuito dei beni che sono oggetto di scambio commerciale.
È una forma di messa in scena che genera valore sia per l’azienda che lo introduce sul mercato, sia per le persone che lo acquistano e lo consumano.
Ma cosa succede quando a essere confezionato è qualcosa di intangibile o difficilmente “impacchettabile” come una città o un’area geografica? O, ancora più provocatoriamente, l’aria di un certo luogo?

Confezionare e vendere “aria” non è in realtà una novità. Sono numerosissimi, infatti, i casi in cui nel corso del tempo è stato utilizzato il packaging come mass-medium non convenzionale per promuovere un territorio o anche solo come scherzo o provocazione.
Lo stesso Antonio D’Elia, autore di “Aria Ti Mare”, racconta come abbia trovato ispirazione in diverse iniziative, da quelle più spontanee frutto della creatività partenopea, a quelle che costituiscono vere e proprie operazioni di marketing territoriale, dove anziché mettere in vendita le tradizionali cartoline, viene “confezionata” l’aria di diverse parti del mondo.

 

Un caso interessante in questo senso è Canned Air, una serie di lattine lanciate dalla statunitense Fattrol, e vendute come souvenir di città come New York, Londra, Parigi, Zurigo, Tokio, Dubai, o Shanghai, per citare alcuni esempi.
Secondo quanto dichiarato sulla confezione, il contenuto è “100% bio” ed è costituito da “aria fresca in scatola che allevia lo stress, cura la nostalgia di casa e aiuta a combattere la malinconia”.
L’atmosfera di ogni città è data dall’insieme dei suoi monumenti e delle sue principali attrazioni, che costituiscono la “formulazione” del prodotto.

 

L’aria, più che riferirsi in modo didascalico al miscuglio gassoso che forma l’atmosfera (fisica) terrestre, rimanda evidentemente in senso figurato una vasta gamma di significati, che costituiscono l’atmosfera (metaforica) di una città, dalla bellezza di monumenti e paesaggi alle sensazioni ed emozioni che è possibile vivere in quel luogo. Basti solo pensare a cosa può evocare l’espressione “aria di Napoli” in chi ha potuto conoscere il capoluogo campano e i suoi abitanti.

La prima versione della cosiddetta “Aria ‘e Napule” fu inventata da Gennaro Ciaravolo, che nel secondo dopoguerra diffuse la notizia di aver ideato e venduto l’aria della sua città, riutilizzando le lattine vuote degli aiuti alimentari forniti dalle truppe statunitensi dopo la liberazione.
La voce circolò rapidamente e fu accolta da amici e conoscenti come espressione della genialità di Ciaravolo, addirittura capace di rivendere agli stessi americani i contenitori – vuoti, essendo “pieni” solamente di aria – dei prodotti da loro distribuiti agli italiani: a Napoli avevano trovato il modo di far soldi anche con la guerra.
Fu poi grazie a un film di Dino Risi del 1966 (“Operazione San Gennaro”) che l’Aria di Napoli entrò poi definitivamente a far parte dell’immaginario associato alla cultura popolare partenopea.

 

L’invenzione di Ciaravolo era ovviamente uno scherzo, che voleva esprimere in realtà una critica rispetto a un’idea di “napoletanità”, che si stava affermando in quel periodo, che metteva la truffa e il raggiro al posto della capacità di risolvere i problemi e di trasformare una situazione di difficoltà in risorsa, che invece sì è tipicamente napoletana e alla base della proverbiale abilità di “sapersi arrangiare”.
La provocazione della lattina di “Aria ‘e Napule” di Gennaro Ciavarolo in realtà fu colta da pochi e considerata solamente una manifestazione della “furbizia” napoletana. Così come pochi colsero il riferimento all’ampolla di “Air de Paris”, proposta provocatoriamente qualche decennio prima da Marcel Duchamp, artista concettuale francese noto per i suoi famosi Ready-Made.

 

Successivamente, nel 1970, fu l’artista Claudio Ciaravolo, nipote di Gennaro Ciaravolo, che decise di fabbricare davvero le famose lattine, trasformandole in opere provocatorie, analogamente a quanto realizzato in Francia da Duchamp.
Oltre all’Aria di Napoli, che il giovane Ciaravolo espose e mise in vendita su una bancarella fuori dalla Biennale di Venezia nel 1972 (in due versioni: con smog e senza smog), seguirono l’Aria Fritta (a Milano), la FOG (a Londra-Carnaby Street), l’Aria Pacis (a Parigi alla fine della guerra in Vietnam), fino all’Aria Santa (a Roma per il Giubileo).
Dopo le “arie”, l’artista napoletano produsse poi anche una serie di “acque”, sempre con lo stesso spirito provocatorio: dall’acqua di Napoli a quella di Venezia, fino alla famosissima acqua di Capri.

 

Successivamente, l’idea di imbottigliare o inscatolare l’aria, pur non essendo più di certo una novità, si è continuata a diffondere gradualmente, ispirando la nascita di numerosissime altre proposte, sia in Italia che all’estero, di valorizzazione territoriale.
Tra queste vale la pena citare l’Aria di Romagna dei fratelli Davide e Massimo Ottaviani, produttori di vini dalle caratteristiche organolettiche particolari determinate dal microclima in cui si trovano le vigne, cioè nel contesto dell’Oasi Faunistica della Valle Del Conca.
Da qui l’idea di “confezionare” l’aria del luogo e inviarla come regalo – insieme ai vini e altri prodotti tipici – a quelle persone che, durante la pandemia di Covid-19, non avevano più potuto viaggiare.

 

Principale beneficio dell’Aria di Romagna: dona il buon umore. Tra gli aspetti invece più “scientifici”, l’aria mattutina raccolta in valle ha varie proprietà, date dalla presenza del mare, del fiume e delle colline del riminese: è ricca di sali minerali, aiuta la circolazione e infine rafforza anche le ossa.

Anche My Baggage, società del Regno Unito che si occupa di traslochi internazionali, ha creato bottiglie d’aria proveniente da Inghilterra, Scozia, Galles e Irlanda del Nord, per curare la nostalgia del “profumo di casa” di chi vive all’estero. Disponibili anche bottiglie speciali in edizione limitata della metropolitana di Londra e di un negozio di fish and chip del Norfolk.
Sempre nel Regno Unito, per sensibilizzare l’opinione pubblica sui problemi dell’inquinamento atmosferico, Aethaer lanciava nel 2016 una serie di contenitori, ciascuno “riempito” con aria proveniente da una delle 5 cosiddette “aree di straordinaria bellezza naturale” (Areas of Outstanding Natural Beauty – AONB) della campagna britannica. Da parte sua, Coast Capture Air offre una varietà di aria proveniente dalle coste frastagliate e rocciose della Gran Bretagna.

 

Gli esempi visti finora non devono però essere confusi con altri tipi di prodotti attualmente in commercio, dove l’aria viene realmente prelevata da zone incontaminate, per essere poi confezionata in bombolette spray ed essere “respirata” all’occorrenza, ricordando quelle utilizzate in ambito medico per l’assunzione di farmaci in formato aerosol predosato.
Tra le aziende specializzate in questo settore, troviamo per esempio la canadese Vitality Air, che vende aria fresca proveniente dalle Montagne Rocciose, la neozelandese Kiwiana, la svizzera Swissbreeze e l’italiana Breathaly. Si tratta di prodotti venduti in particolare in quei paesi, come la Cina, dove l’inquinamento atmosferico è un problema particolarmente sentito, con livelli di contaminanti particolarmente allarmanti.

 

Certamente, l’idea di imbottigliare o inscatolare aria può generare stupore e scatenare ilarità, soprattutto se si pensa a quelle confezioni-souvenir che possiamo incontrare sulle bancarelle di Spaccanapoli o sulle spiagge del Salento, come ricordo di una bella vacanza.
Tuttavia, questo tipo di iniziative potrebbe anche sollevare dubbi etici, alla luce delle grandi emergenze ambientali, dal cambio climatico alla crisi energetica, che ci obbligano a riflettere e rimettere in discussione determinate pratiche e i relativi impatti associati.
Un contenitore pieno d’aria può, infatti, essere facilmente considerato un futile spreco di risorse, in quanto espressione, per esempio, di over-packaging.
Eppure, se proviamo a cambiare prospettiva, e osserviamo questi oggetti così provocatori dal punto di vista dei valori che esprimono e dell’esperienza che producono, ci rendiamo conto che la realtà dei fatti non è così negativa.

 

In primo luogo, trattandosi di un souvenir, si suppone che quella confezione non sarà mai buttata, ma conservata con cura, come oggetto da collezione, senza che arrivi mai a impattare l’ambiente.
In secondo luogo, grazie agli elementi comunicativi dell’imballaggio e alla sua dimensione narrativa, l’aria in bottiglia o in lattina racconta in modo non convenzionale un territorio e ne tangibilizza le qualità intangibili, valorizzandole, secondo una logica di “packaging storytelling”.
Parafrasando Marshall McLuhan, possiamo giustamente affermare che l’imballaggio (il medium) è il messaggio, il contenitore in altre parole si trasforma nel contenuto che stiamo consumando.
Anche se ciò che si acquista, dunque, è solo “aria”, ciò che si ottiene in realtà da un punto di vista simbolico è la memoria di un viaggio, il ricordo dell’esperienza vissuta in un certo luogo e le emozioni associate a essa, strappandoci magari un sorriso ogni volta che poseremo lo sguardo su quel souvenir non convenzionale esposto sulla scrivania o nella libreria di casa.