8M: IL PACKAGING IN DIFESA DELLE DONNE.

[07. Contemporaneo
È il packaging che sa essere in costante relazione con la società della quale rappresenta i valori.
Gli imballaggi riflettono la cultura della società e contribuiscono a loro volta a crearla. Lo fanno attraverso i messaggi, che passano dalle loro forme, dalle loro grafiche, dai loro simboli: così trasferiscono modelli, partecipando all’evoluzione della contemporaneità.

8M: il packaging in difesa delle donne. Sostegno reale o rischio di purplewashing?

L’8 marzo (8M) è ormai riconosciuto a livello internazionale come una giornata dedicata alla celebrazione della donna, e in questa occasione sempre più marchi e prodotti dimostrano il loro sostegno al genere femminile attraverso azioni di comunicazione mirate. Tra queste, sono numerosi gli esempi di packaging che trasmettono messaggi di sensibilizzazione in difesa dei diritti delle donne, ma il rischio di scivolare nel cosiddetto “purplewashing” è purtroppo concreto.

Spesso erroneamente indicata come “Festa della donna”, quella che si celebra l’8 marzo è in realtà la “Giornata internazionale della donna” (o “Giornata internazionale dei diritti della donna”). Infatti, la motivazione alla base di questa ricorrenza non è una semplice festività, ma la riflessione intorno alla condizione femminile all’interno della società, nei diversi Paesi del mondo.
Si tratta di una ricorrenza internazionale che sottolinea l’importanza della lotta per i diritti delle donne, in particolare per la loro emancipazione, ricordando le conquiste sociali, economiche e politiche e portando l’attenzione su questioni come l’uguaglianza di genere, i diritti riproduttivi, le discriminazioni e le diverse forme di violenza contro le donne.

Ogni anno questa celebrazione si focalizza su temi specifici. Nel 2023 si punta l’attenzione sull’equità di genere e sull’inclusione, promosse con l’hashtag #EmbraceEquity (“abbraccia l’equità”) e il claim “equal opportunities are no longer enough” (letteralmente: “le pari opportunità non sono più sufficienti”).
L’equità (“equity”) riconosce le diverse circostanze in cui si trovano le persone e assegna a ciascuno le risorse e opportunità necessarie per raggiungere un risultato uguale per tutte e tutti, a differenza invece dell’uguaglianza (“equality”) secondo cui ogni individuo o gruppo di persone ricevono le stesse risorse o opportunità, senza tuttavia garantire necessariamente le condizioni per il raggiungimento dello stesso risultato.

 

Tra gli esempi di campagne sviluppate a sostegno delle donne in occasione dell’8 marzo, negli Stati Uniti, Hershey propone nuovamente un’edizione limitata delle sue iconiche tavolette di cioccolato: “Hershey’s SHE”.
Ogni confezione riporta il messaggio “She is” seguito da aggettivi che descrivono qualità come l’intelligenza, il coraggio, la resilienza, la passione o la persistenza. Oltre 200 aggettivi sono stati selezionati da Hershey’s insieme all’organizzazione no-profit Girls on the Run sulla base di interviste in cui è stato chiesto alle persone partecipanti di indicare le caratteristiche di figure femminili che hanno un impatto significativo sulla loro vita.

Hershey Canada ha collaborato invece con Girl Up per lanciare anche quest’anno la campagna “Her for She”. Sui packaging di cinque tavolette vengono celebrate altrettante donne canadesi e il loro lavoro: Autumn Peltier, attivista per la difesa del diritto all’acqua potabile delle tribù native canadesi; Fae Johnstone, sostenitrice dei diritti 2LGBTQIA+; Rita Audi, attivista per l’equità di genere e l’istruzione; Naila Moloo, ricercatrice sul clima; e Kélicia Massala, fondatrice di Girl Up Québec.
Hershey’s Canada ha collaborato con l’artista Gosia Komorski per rappresentare le cinque donne sulle barrette Hershey’s.

Con l’obiettivo di “sostenere donne che ribaltano lo status quo” (“supporting women flipping the status quo”), Mars presenta invece sul packaging dei confetti M&M’S tre personaggi femminili, Green, Brown e Purple, rappresentati capovolti sul prodotto per rafforzare il messaggio della campagna.
I colori dei tre personaggi hanno un significato simbolico ben preciso: se il colore marrone vuole rappresentare l’integrazione e i diritti delle donne nere, il verde e il viola rimandano invece al movimento delle suffragette, cioè al “Women’s Social & Political Union” (WSPU) che si batté per il suffragio femminile nel Regno Unito dal 1903 al 1918. Non è un caso che, nel corso del tempo, il colore viola sia diventato uno degli elementi simbolici dei movimenti femministi.

I confetti M&M’s di colore viola erano già stati lanciati nel settembre 2022, attraverso un grande numero musicale pubblicato su YouTube, che ha introdotto “Purple” nell’universo narrativo di M&M’s. Per ogni visualizzazione del video, M&M’s ha donato 1 dollaro (fino a 500.000 dollari) a Sing for Hope, organizzazione no-profit che ha l’aspirazione di “creare un mondo migliore attraverso le arti”.
Analogamente, quest’anno M&M’s donerà 1 dollaro per ogni confezione acquistata per la Giornata Internazionale della Donna a She Is the Music e We Are Moving the Needle, due organizzazioni che sostengono le donne in ambito musicale. Altre donazioni sono poi destinate al Geena Davis Institute on Gender in Media e il Female Founder Collective.

 

Interessante anche il caso della birra Miller Lite e la sua recente campagna “Bad $#!t to good $#!t” con cui il brand ha voluto farsi perdonare da chi ha inventato la birra – le donne – dichiarando di voler trasformare le vecchie pubblicità sessiste in compost e fertilizzante.
Per mesi, infatti, Miller Lite è andato alla ricerca dei propri manifesti e di quelli di altre marche di birra, molte delle quali ritraevano donne in bikini sessualizzate e oggettificate. Il materiale raccolto sarà convertito in fertilizzante e utilizzato per coltivare luppolo che sarà donato a produttrici di birra. Inoltre, il marchio si impegna a sostenere la Pink Boots Society, che si dedica ad aiutare le donne nella professione della birra.
Nel 2022, in occasione della celebrazione del Giorno dell’Indipendenza, Miller Lite aveva già diffuso una campagna per celebrare la figura della donna nel settore della birra, proponendo un’edizione limitata della propria bevanda dedicata a Mary Lisle, che nel 1734 gestì con successo un birrificio di Philadelphia, diventando la prima donna produttrice di birra degli Stati Uniti. La figura di Mary Lisle fu però ben presto dimenticata, insieme a quella delle altre “Ale Wives” (letteralmente “mogli della birra”).

Altra storia dimenticata è quella di Rose Mattus, co-fondatrice di Häagen-Dazs, celebrata quest’anno con un’iniziativa globale volta a mettere in luce il suo contributo al marchio e la sua etica #DontHoldBack. Il gelato alla vaniglia di Häagen-Dazs, ribattezzato “Founder’s Favourite” in riconoscimento della predilezione di Rose per questo iconico sapore fin dal 1960, è stato offerto a tutte le clienti in occasione della Giornata Internazionale della Donna in negozi Häagen-Dazs selezionati.

 

Gli esempi citati sono solo alcuni casi esemplari di un fenomeno che si sta gradualmente diffondendo in tutto il mondo. Resta tuttavia il dubbio se campagne come queste siano espressione di una reale consapevolezza e di un impegno concreto nel difendere i diritti femminili, sia fuori che dentro le organizzazioni (per esempio, assicurando parità di condizioni e salari equi), o se in realtà si tratti di operazioni commerciali che potrebbero ricadere – a volte anche inconsapevolmente – nel cosiddetto “purplewashing”, espressione attribuita alla scrittrice Brigitte Vasallo e usata attualmente dai movimenti femministi per riferirsi a strategie politiche e di marketing che promuovono discorsi a favore dei diritti delle donne ma che in realtà nascondono discriminazioni e disuguaglianze di genere.

Il purplewashing (dall’inglese “purple”, viola, e “washing”, lavaggio) si riferisce agli sforzi che i Paesi occidentali compiono per proteggere la propria immagine e distogliere l’attenzione dal fatto che non hanno raggiunto una reale parità tra uomini e donne. Questo termine è usato anche per denunciare l’uso fazioso che sarebbe fatto del femminismo per promuovere discorsi o politiche xenofobe e islamofobe, sottolineando per esempio il fatto che le donne di altre culture vivono in condizioni peggiori, soprattutto nei Paesi a maggioranza musulmana.
Per alcune attiviste, di fronte a ciò che denunciano come una strumentalizzazione dei diritti femminili, l’unica risposta possibile ed emancipatrice per tutte le minoranze è la solidarietà intersezionale tra diversi gruppi oppressi, come le donne, ma anche le persone migranti, le minoranze sessuali, ecc.

Questo tipo di “lavaggio d’immagine” richiama direttamente altre pratiche, come il “whitewashing” (dall’inglese, imbiancatura) o il “greenwashing” (letteralmente, “lavaggio verde”).
Il whitewashing si riferisce, per esempio, all’utilizzo da parte dell’industria cinematografica – in particolare Hollywood – di attrici e attori caucasici per interpretare personaggi di altre etnie, col fine di renderli più appetibili al grande pubblico.
L’espressione greenwashing, oggi particolarmente diffusa, è stata coniata nel 1986 dall’ambientalista Jay Westerveld in riferimento all’industria alberghiera che promuoveva falsamente il riutilizzo degli asciugamani come parte di una più ampia strategia ambientale, mentre in realtà si trattava di una misura di risparmio.

Sempre nell’ambito delle cause femminili, ancora prima del purplewashing, nei primi anni 2000, l’organizzazione Breast Cancer Action aveva coniato il termine “pinkwashing” per riferirsi a tutte quelle aziende produttrici di beni contenenti ingredienti cancerogeni, che per lavare la propria immagine e conquistare l’opinione pubblica, inserivano l’iconico “nastro rosa”, simbolo della lotta contro il cancro al seno, nelle loro pubblicità o sulle loro confezioni, per dimostrare il sostegno alla prevenzione e alla cura di questa malattia.
È nel 2002 che nasce ufficialmente, con una inserzione sul New York Times, la campagna “Think Before You Pink”, per chiedere maggiore trasparenza e responsabilità etica alle aziende che partecipavano a iniziative di sostegno alla ricerca sul cancro ed evitare di speculare su un tema molto serio e delicato solo per un ritorno in termini di denaro e visibilità.

Ancora una volta, il packaging si dimostra un potente mezzo di comunicazione di massa che, al pari dei media più tradizionali, è in grado di veicolare contenuti che trascendono il prodotto e la sua marca, come messaggi di sensibilizzazione sociale, ad esempio a sostegno dei diritti delle donne. Tuttavia, questa pratica, per essere davvero efficace e non ricadere in un’operazione di “lavaggio dell’immagine”, deve essere accompagnata da azioni concrete volte a migliorare la condizione femminile, riflesso di un senso di responsabilità etica ormai imprescindibile nel contesto contemporaneo, alla luce delle crisi attuali.

 

 

 

 

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